YAQUI

UOMINI E MESTIERI- DAL VOLUME "ESSERE DI PAESE"

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 9/2/2020, 17:05
Avatar

Senior Member

Group:
Founder e Amministratore
Posts:
44,427

Status:


Dal volume "Essere di paese":

clau-emigrante_1clau-gerla


"Partenza dell'emigrante" e "Donna con la gerla" (Claudio Brollo)

Uomini e mestieri

"Che gli uomini del paese partissero ogni primavera mi sembrava una cosa naturale. Che andassero a lavorare a Parigi, a Bruxelles, a Marcinelle o a Zurigo mi sembrava una cosa normale. Non ho mai pensato che avrebbero potuto portarsi dietro anche le mogli. Vedevo queste partenze come un andamento stagionale giusto.
Il mio era un paese povero, e, non avendo mai abitato in uno ricco, pensavo che per gli uomini partire a Pasqua e tornare a Natale fosse un destino e basta.
Gli uomini nella primavera sospendevano i lavori nelle proprie case. Rimaneva a metà una parete da "stabilire" (tirare a malta fina), rimanevano muri di nudi sassi grigi a malta grezza. Al loro rientro i lavori riprendevano di colpo come fossero passati solamente dei giorni e non un anno intero, e alle volte anche di più.
Gli attrezzi: il badile, la carriola, il martello, la cazzuola, sistemati con grande cura nel sottoscala, riprendevano vita.
Le case in Carnia le ho sempre viste fatte a rate. Le ho sempre viste con quelle finestre vuote nei piani superiori, come occhi che guardano lontano, in attesa che il padrone ritorni per sistemarle.
Quei buchi sempre provvisoriamente chiusi con delle tavole (squarz) inchiodate dal di dentro e appoggiate sullo stipite sottostante, facendo uscire dalla finestra come una frangia sgangherata di tavole irregolari sporche di malta.
I cortili delle nostre case li ho sempre visti con dei grandi mucchi di sassi, di ghiaia e di sabbia. erano i punti di incontro di noi bambini. Erano le nostre spiagge.

"Come mai Maria di Narde ha una casa così grande e lei è sempre sola?" domandavo a mia madre.
"E' sola proprio perché la casa è grande. Tutti i suoi uomini, marito e i due figli sono all'estero: Ci vogliono soldi per fare una casa". Ma Maria la casa l'ha fatta quasi da sola! Il materiale l'ha portato vicino tutto lei. Andava al greto del fiume, che era ancora notte, a prendere sabbia per le malte fine, ghiaione e sassi; andava alla segheria per il legname, a Tolmezzo per la ferramenta e sempre tutto con la gerla.
Quando la gerla era carica, camminava con la testa bassa per vedere dove metteva i piedi e, quando, ritornando al fiume, la gerla era vuota, tirava fuori i ferri da calza e camminando lavorava. Erano sempre calzetti di lana bianca per i suoi uomini. Li faceva di lana perché assorbivano meglio il sudore.
Quando passavo davanti a quella casona doppia della Maria di Narde, quattro stanze a pianterreno, quattro al primo piano e quattro al secondo, che funzionavano da granaio, mi pareva di vedere questa donna che ininterrottamente scaricava la sua gerla di sabbia e di sassi e ripartiva verso il fiume nella poca luce dell'alba, ancora prima che suonasse l'Ave Maria, fino alla sera all'imbrunire.
Con questo essere tre mesi a casa e nove in Francia, o da altre parti, non poteva crearsi fra i coniugi un grande affiatamento affettuoso.
Raccontava mia madre, a questo proposito, che proprio la Maria che aveva dato anima e corpo per la costruzione di quella sua grande casa, era rimasta come svuotata da ogni sentimento, considerato superfluo.
Lavoro, stanchezza e sfinimento mandano a farsi friggere anche l'amore. Si ha un bel dire, ma quando uno è stanco non ha voglia di stupidaggini.
Una sera, sotto le feste di Natale, la Maria sente battere alla porta della cucina (in generale non si chiudevano mai le porte): "Chi è?". "Sono io, Pieri" dice il marito, che tornava dalla Francia dopo un anno di assenza. Maria, sempre dalla sua camera, senza muoversi, risponde: "Vedi lì Pieri, sul spolert (cucina economica) c'è un piatto di minestra di fagioli che mi è rimasto a mezzogiorno, riscaldala; se il fuoco è morto, gli stecchi sono nella cassa dei legni, come sempre".


Pur con questa freddezza di rapporti fra coniugi, malignava mia madre, a Natale venive sempre "imbastito" qualche bambino, che nasceva regolarmente nel settembre, ottobre dell'anno successivo.
Certi mariti facevano alle volte due stagioni legate insieme, cosicché trovavano i figli cresciuti, dai due passavano ai quattro o dai quattro ai sei anni, ed era una bella differenza.
Albin di Zie, tornato appunto dopo un'assenza di due anni, trattenuto a Zurigo per un lavoro continuativo importante, trova suo figlio diventato grande: L'aveva lasciato che aveva due anni e il bambino non lo riconosce.
In questi due anni di assenza del padre il piccolo aveva sempre dormito nel lettone con la madre. Un lettone con il materasso (paion) gonfio di foglie secche, le foglie delle pannocchie del granoturco. Al rientro del padre, il figlio viene trasferito in una cameretta attigua.
Al mattino dopo il bambino è tutto indaffarato a disfare il letto e a smuovere, dalla parte dove dormiva lui, il materasso, gettando disordinatamente, con disprezzo, su tutto il pavimento le foglie. "Che cosa diavolo stai facendo?" gli dice sua madre. "La notte scorsa è venuto quell'uomo a dormire nel mio posto, io non voglio che ritorni anche questa sera!".

Da piccola non ho mai sofferto per il fatto di non avere il padre, perché non vedevo mai "padri". All'infuori del sindaco, del segretario, del medico, del maestro, che erano dei veri padri, tutti gli altri erano o nonni o uomini "dispossenti".
Il padre contava poco, per quello che è rimasto nel mio ricordare l'infanzia. Quando erano a casa parevano degli estranei, erano come provvisori e il più delle volte consumavano buona parte del loro tempo libero all'osteria.
Ho avuto addirittura pena per certe mie compagne che per tre mesi all'anno avevano il padre a casa.
Erano impegnati, sì, nei lavori di rifinitura della casa, tirar su pareti, "stabilire" muri grezzi, dare il bianco, andare nel bosco a far legna, ma alla domenica bevevano: Vedevo le mogli costrette ad andare per le osterie; prima chiamarli da fuori con le buone, poi entrare e tirarli per la manica della giacchetta, pregarli e supplicarli, perché tornassero a casa, affinché la "scimmia tirata su" non diventasse più grave.
Andavano e tornavano magari per una vita intera fra Arta e Parigi, ma di Parigi ho sempre sentito parlare con entusiasmo e con una vera conoscenza solo de "la Gare du Nord". Era evidentemente il punto fisso che li teneva legati. "Gare du Nord - Paris - Stazione per la Carnia - Arta", da una stagione all'altra.

Menaus
Oltre ai muratori, migratori ad ogni stagione, c'erano anche i menaus, lavoratori del legname. Per diversi mesi all'anno vivevano nelle baracche, nei boschi dell'Austria e della Germania.
Il loro lavoro era quello di preparare gli abeti, di ridurli a taes (tronchi). Prima naturalmente abbatterli, poi spogliarli dei rami, pulirli della corteccia per renderli più scivolosi, ridurli quindi a tronchi di eguale grandezza e trascinarli a valle uno a uno, se il terreno era irregolare. C'era poi il sistema, molto pratico, detto della lisce: una specie di pista fatta di tronchi, uniti fra di loro nel senso della lunghezza e tenuti insieme con dei ganci di ferro, sistemati in una zona di forte pendenza, precedentemente ripulita di qualsiasi arbusto.
In questa pista i tronchi scivolavano con una velocità e un'allegria che pareva quasi si divertissero.
Quando nei boschi, intorno al mio paese, c'era una di queste "sagre del legname", al momento del trasporto a valle con il sistema della lisce, andavo anche io a vedere, come si fosse trattato di una vera gara sportiva fra i tronchi; parteggiavo per quello che arrivava a fondo valle per primo e pativo per quelli che si mettevano di traverso, perché ostruivano il passaggio e prendevano colpi e contraccolpi da tutte le parti.


Raccontava mia madre che i menaus lavoravano, si può dire, giorno e notte. Il racconto che mi faceva a questo proposito lo sta a dimostrare, anche se sembra un pò esagerato.
Quando un menau andava a dormire nella baracca, attaccava il cappello ad un chiodo e quando si alzava per ritornare al lavoro, il cappello dondolava ancora al chiodo.
"Che cosa mangiavano i menaus?", chiedevo a mia madre. "Sempre polenta e formaggio e, per cambiare, formaggio e polenta". Quando la polenta che si faceva in casa riusciva dura, la mamma diceva: "E' come quella dei menaus". La loro polenta doveva essere durissima, perché doveva durare per diversi giorni. "E non mangiano mai radicchio?", chiedevo. Mi pareva dovessero desiderare qualcosa di verde e di fresco.
"Nei boschi non cresce il radicchio e allora mangiano solo polenta e formaggio, per mesi e mesi". Lo diceva con una severità e una rassegnazione che mi pareva quasi una cattiveria.
Ho sempre visto gli uomini che partivano vestiti di scuro, forse era il vestito del giorno delle nozze.
Le mogli li accompagnavano al trenino che li portava fino a Tolmezzo, per proseguire poi per la Francia o per l'Austria. La valigia nella gerla, messa in piedi, mezza dentro e mezza fuori.
Il fazzoletto un po' abbassato sugli occhi, non con colori allegri e fiorati, ma se mai sullo scuro. Gli occhi rossi per avere pianto, ma non si dovevano far vedere, era una cosa troppo frivola e perciò il fazzoletto si teneva basso.
Gli uomini, nell'attesa del treno, si comportavano come se fossero già partiti. Se trovavano, come succedeva spesso, dei compagni di viaggio, buttavano giù qualche parola in francese o in tedesco a seconda di dove andavano. Era come se appartenessero ormai a un'altra nazione. Le mogli che rimanevano lì in attesa della partenza, diventavano via via quasi delle estranee; alla fine un bacio frettoloso ed un semplice mandi (ciao). Non era bello far vedere agli altri un comportamento troppo affettuoso. Mi ricordo di aver visto gli uomini che partivano quasi sostenuti e le mogli che si affrettavano verso casa, forse per poter piangere liberamente da sole."

www.donneincarnia.it/ieri/comeeravamo.htm
 
Web  Top
0 replies since 9/2/2020, 17:05   26 views
  Share